giovedì 25 luglio 2013

Il Profumo del Chianti - La dinastia Antinori si racconta

La discontinuità per un blogger dilettante è quasi un must, altrimenti il piacere diventa lavoro e ça va sens dire che non è la stessa cosa. Per questo in questi mesi abbastanza impegnati, dove la  mancanza di ispirazione regnava sovrana, avevo bisogno di un qualcosa che mi  riaccendesse  la voglia di scrivere e che mi riportasse a riprendere il filo di un discorso già aperto con i lettori, evitando di essere additato come un trascurato e maleducato cantastorie, che nemmeno si congeda dal suo pubblico, se ha di fatto già deciso di farlo.
Cio' che riacceso in me la voglia di scrivere è stata la lettura di un libro non nuovissimo,  uscito nel novembre 2011, ma che ritengo fondamentale per tutti gli appassionati di vino: il Profumo del Chianti, di Piero Antinori, edito da Mondadori, regalatomi dall'amico Roberto Scalacci.  In uno stile semplice ed evocativo, il Marchese fiorentino ci  offre in un racconto,  intessuto su sette dei suoi vini che danno il titolo ad altrettanti capitoli,  tutte le tappe più significative, il credo, la filosofia, gli aneddoti e gli errori che hanno caratterizzato la scalata degli Antinori verso l'Olimpo del vino italiano e mondiale.
Certo non manca l'autocelebrazione della dinastia, ma fa parte del gioco: gli Antinori, noti commercianti di stoffe e seta,  si iscrissero all'arte  fiorentina dei "Vinattieri", chi vende il vino o lo produce, nel lontano 1385 su consiglio della madre di Giovanni Antinori, Albiera degli Agli, nome cosi' caro al Marchese Piero da riproporlo per la sua primogenita, nata poco prima che lo stesso prendesse le redini dell'azienda nel 1966 da suo padre Niccolo'.
Da li' ne è passata di storia, tutta "in house", con un semplice società a responsabilità limitata e senza pagare un dividendo, ma solo salari, anche alle figlie proprietarie. L'eccezione è il periodo che il Marchese definisce buio che va dal 1985 al 1992, quando l'azienda, in temporanea difficoltà per delle diatribe familiari con il fratello più piccolo Ludovico, cedette parte delle proprietà al'inglese Whitbread, società invece quotata in borsa e con altri obiettivi : la " vintage strategy" dell'azienda, cosi' come descritta qualche anno fa dal Wall Street Journal, la strategia che punta al futuro, che  vede in un investimento in un vigneto per meno di quarant'anni qualcosa di troppo limitato nel tempo, non si addiceva alle preferenze di mercato degli albergatori inglesi. Con enorme sforzo, tramite un singolare episodio di  liquidazione delle plusvalenze ottenute dalla vendita delle partecipazioni Fondiaria, azioni chiave per Montedison e il gruppo Gardini,  e l'appoggio di qualche banca, finalmente Piero riusci' a riportare nel 1992 la Antinori al modello del family business.
Il Marchese Antinori con le tre figlie, Albiera, Allegra ed Alessia
Family business che oggi si impernia sulla figura delle tre figlie di Antinori, la già citata Albiera, poi Allegra e Alessia, che gradualmente sono state avvicinate ad essere non solo donne di marketing e di business, ma anche di vigna: Alessia è enologa e si occupa dello sviluppo di alcune tenute, fra cui anche quella della Franciacorta, Montenisa, i cui terreni sono presi in affitto dai conti Maggi. Il racconto di Piero ci porta poi al Villa Antinori, nato nel 1928 da un'intuizione di suo padre Niccolo', la cui boutade classica era " A Bordeaux hanno i castelli, in Toscana abbiamo le Ville". Questo vino è un Chianti rinnovato a predominanza sangiovese, ma con una giusta dose di transalpinità con cabernet sauvignon e merlot  dalla Gironda ed un tocco di syrah del Rodano. Del resto fu proprio la Francia, paradossalmente,  che permise agli Antinori di entrare nel mercato tedesco: ad una degustazione alla cieca a Brema, davanti ad un importatore di prestigio, il giovane Piero riusci' ad indovinare un vino della AOC Graves, persino l'anno, contribuendo ad accattivarsi le simpatie delle persone che contavano in quella sede, e a stipulare contratti dopo.
Questi "vinattieri"  da ventisette generazioni, che dai loro poderi di San Casciano Val Di Pesa si sono estesi fino a possedere oramai 2358 ettari vitati, di cui 1742 in Italia, hanno sempre avuto il vizio della internazionalizzazione o globalizzazione che dir si voglia. Del resto per Piero "Viaggiare apre la mente" e l'inglese è sempre stato di casa, vista la "americanità" di sua madre, Carla della Gherardesca, che aveva avuto madre e nonna americane. Internazionalizzazione che ebbe una consacrazione nel 2000, anno in cui il SOLAIA, blend fra Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Sangiovese, ottenne il riconoscimento di migliore vino dell'anno per il vendemmia 1997 dal Wine Spectator, la prestigiosa rivista del guru del mercato del vino statunitense e mondiale Robert Parker. Questo vino apparso nel 1979 e modificato con aggiunta del Sangiovese nel 1982 ho avuto il piacere di degustarlo in una delle mie cene brussellesi e certamente non è fra quelli che si possono dimenticare : durante la cena cambio' sentori, profumi e sapori almeno quattro volte arrivando a saggiare tutte le nostre capacità organolettiche...del resto i suoi 150,00 Euro a bottiglia li deve pur valere!!
Inoltre simpatico nel libro è stato il passaggio relativo alla filosofia dell'azienda e alla catena delle P, a quelle parole chiave che devono animare il lavoro della stessa : P come Pazienza, perché,  per  investimenti che portarono gli Antinori nell'élite del Chianti Classico (quali Peppoli e Badia a Passignano) il tempo, nonostante non compreso dalla Whitbread, era il 1985, ha la sua importanza: "Oggi ...il pensiero e la parola corrono velocissimi sul web...Il vino no, ha da sempre gli stessi tempi e non li puo' accelerare". La Seconda P è quella della Perseveranza, che ti impone di "provare e riprovare" per sconfiggere le malattie della vite, come per trovare la giusta combinazione degli assemblaggi o sfondare in nuovi mercati, dove non solo devi produrre un buon vino,  ma lo devi saper "far conoscere e circolare". La P di Previdenza che ti aiuta in tutto il rischioso ciclo del vino dalla Vigna alle Cantine, ma che deve essere sempre presa in considerazione quando si tratta di dover ben investire: i fallimenti delle operazioni Santi, con il Soave, e Bigi, con l'Orvieto Bianco, fecero denotare, per la Antinori, una mancanza di Previdenza, se non una palese sufficienza.O ancora la Precisione, necessaria "miscela fra perfezionismo e pratica" che serve al viticoltore per gestire al meglio i ritrovati della chimica sia sulla vite che in cantina, ovvero le tecniche di vendemmia e il controllo della maturazione : ogni grappolo deve essere staccato dalla vite al momento giusto, altrimenti il vino non sarà quello che si aspetta. Solo dopo di questo c'è la P di Profitto, che deve essere un mezzo e non il fine, il mezzo per poter poi reinvestire in qualità e in efficienza nell'azienda, rimanendo meramente " vettore di miglioramento", per " lasciare alla prossima generazione un'azienda migliore di quella ricevuta". In ultimo quale summa P che raccoglie tutte le altre, c'è la Passione, quale "scintilla molto mediterranea" che dà il senso del'Italianità e che si estrinseca in un "Sistema del Bello" cui ogni cittadino dell'italica penisola è stato educato  e che si riverbera in un'italianità concepita nel mondo come " raffinatezza, creatività, buon gusto e dolce vita". Visione abbastanza idillica, ma che comunque ci offre un quadro di cio' che dovrebbe essere lo spirito di un'impresa, soprattutto quando è ancora intesa come familiare.
Giacomo Tachis con le sue creature Tignanello e Sassicaia
E nella famiglia erano entrati a far parte, continua il Marchese, anche Giacomo Tachis e Renzo Cotarella, enologi e ammisistratori dell'Azienda, nonché due degli uomini del vino fondamentali per la Storia del settore in Italia. Tachis, in Antinori dal 1961,  fu assunto a nemmeno 30 anni su indicazione del professore di agronomia Garoglio e a seguito della sua strepitosa ascesa professionale, venticinque anni dopo l'investitura del Marchese Piero,  a coronamento di una lunga carriera, gli è stato assegnato nel 2011 dalla rivista inglese Decanter il riconoscimento di Man of the Year. Lo stesso Tachis, piemontese classe 1933, che non solo è il padre del Sassicaia, vino di Mario Incisa della Rocchetta, zio di Piero Antinori, o del Tignanello IGT (un Chianti dal 1971 ripulito dalle bacche bianche della formula di Ricasoli e con passaggio in barrique, che apri' la strada ai c.d. Super Tuscans) di punta della Antinori, ma che è stato il traspositore italiano dell'opera di Emile Peynaud in Francia, che ha introdotto e fatto comprendere le diverse tecniche di selezione delle viti e delle fermentazioni, (è stato lui a introdurre la malolattica), e il primo a "creare una nuova filosofia del vino...dicendo che il vino deve nascere da un patto con il territorio, come distillato dell'essenza di una terra". Tachis ha una storia di consulente riconosciuta anche in altre cantine, ma ha incarnato il credo Antinori  per decenni e ne ha facilitato l'innovazione nel  mondo del vino.
Altro enologo che è cresciuto in famiglia è Renzo Cotarella, l'"autore" del Cervaro della Sala, bianco di punta umbro della scuderia Antinori, proveniente dall'Orvietana Tenuta della Sala, acquisita da Niccolo' Antinori nel 1940, ed "artefice" altresi' del Guado al Tasso, creatura proveniente dalle tenute della Gherardesca di Bolgheri, Super Tuscan di diritto sulla scia del Tignanello e alter ego dell'altro top wine bolgherese Ornellaia (voluto invece dal fratello di Piero, il Marchese Ludovico Antinori, anch'esso Wine of the Year per il Wine Spectator nel 2001).
Renzo Cotarella
Cotarella, giovanissimo, fu assunto non ancora laureato nel 1977 e si occupo' in primis della ristrutturazione della tenuta  della Sala, poi si dedico' anima et corpore alla creazione di un vino che si ispirasse ai bianchi di Borgogna, che potesse affermarsi "per carattere e personalità, rappresentando in toto il territorio e il produttore". Questo vino venne nel 1986, misto fra Chardonnay e Grechetto  e che gli Antinori definirono il Tignanello Bianco, per averne in comune anche il passaggio nelle botti piccoli di 225 litri, cosi' care ai francesi.
Cotarella è il consolidatore dell'opera del rivoluzionario Tachis ed è Lui che è dietro i vini di tutta la galassia di cantine Antinori in Italia e nel mondo: dalle tenute etrusche della Braccesca a Cortona e Montepulciano, o della fattoria delle Mortelle in Maremma, con il Botrosecco creato assieme ad Alessia Antinori, titolare dell'azienda; dai sessanta ettari vitati di Montalcino che danno dal 2000 il Brunello aziendale Pian delle Vigne, dalla tenuta di Forano nel Lazio, ripresa dopo l'espianto di Boncompagni Lodovisi e che dovrebbe ridare i propri vini già dal 2015.
Cotarella è anche dietro i vini Tormaresca in Puglia, ottimo il Moscato dolce di Trani e il Pietrabianca Chardonnay, che ha anche  acquisito  nel brindisino recentemente  la fattoria Maime; coordina gli enologi, fra cui David Landini, nella tenuta Monteloro a Fiesole dove gli Antinori coltivano vitigni a bacca bianca nordici, quali il Riesling Renano, il Pinot Bianco , il Gewurzraminer, che hanno la loro massima espressione nel vino Montebraccio ( per una panoramica sulle tenute cliccate sul sito Antinori). Nelle Langhe alla Prunotto, fiore all'occhiello di Albiera che la gestisce, il Barolo lo fa invece Gianluca Torrengo.
Senza menzionare gli altri possedimenti all'estero sempre sotto l'egida dell'enologo ternano, eppure importanti, citiamo solo l'Antica Napa Valley e la Stag's Leap-Cellar, tenuta che nel 1976 fu protagonista del famoso Judgment of Paris, in cui ad una degustazione alla cieca di sommelier francesi i migliori vini bianchi e rossi risultarono quelli americani, fra i quali il cabernet di questa cantina ( episodio simbolicamente riconosciuto come spartiacque per il rapporto con il nuovo mondo del vino). Tre cantine americane, una in Ungheria, altre in Romania e Malta e una in Cile: il tutto cercando sempre di creare sinergie fra cantine e produttori e all'insegna dell'innovazione. Innovazione che  ha portato l'Azienda Antinori ad uscire dal centro di San Casciano Val di Pesa e creare le cantine  al Bargino, appena fuori  San Casciano, creando uno spazio di lavoro e di rappresentanza di natura quasi monumentale, disegnato dal giovane architetto fiorentino Casamonti: cantina ecologica che sfrutta la luce naturale e con la presenza di musei interni che ne fanno un vero e proprio centro di cultura e un monumento all'enologia e alla creatività italiana, in linea con quanto fatto da Vittorio Moretti a Suvereto con Petra di Mario Botta e da Paolo Panerai nelle cantine di Rocca di Frassinello, ad opera del grande Renzo Piano.
L'esterno della nuova Cantina Antinori a Bargino
Come vedete un libro che è una miniera di informazioni e consigli, e che esalta largamente le gesta della famiglia, che effettivamente sta facendo molto per il vino italiano. Un fenomeno da  forse cinquantamilioni di bottiglie o più l'anno che ha pochi eguali  e che comunque rende onore al brand italiano all over the world. Una lettura che avvicina ad un mondo affascinante ed assai competitivo e ad un'impresa ben condotta, che grazie a dei seri principi e ad una folta schiera di validi  collaboratori, riesce a combattere le classiche fraglilità delle wine dinasties. L'ho trovato molto educativo e ne consiglio la lettura a tutti e in specie a sommeliers e appassionati di vino. 

venerdì 26 aprile 2013

Il mio Vinitaly – Part I – Da Cori alla Tenuta Colfiorito (Colle Cocciano) – Visita allo stand del Lazio

A Verona, davanti allo stand del Lazio

Anche quest'anno ho ceduto alla tentazione di partecipare alla kermesse sul vino più importante d'Italia e ho calcato ancora una volta i padiglioni della Fiera di Verona per visitare il Vinitaly, il 7 e l'8 aprile scorsi, con seconda giornata accompagnato al solito da Doretta e la piccola Benedetta (nemmeno due anni e già due Vinitaly all'attivo). Un mondo in salute quello del vino, se è vero che il numero di visitatori è aumentato del 6 % rispetto all'anno precedente ed il fatturato sembra risentire meno della crisi, resistendo almeno grazie all'export alle bordate di una strisciante ed insistente recessione.

Il 5 Grappoli 2013, Capolemole Bianco di Cori
di Marco Carpineti

Ho fatto i miei classici tour soffermandomi con piacere negli stand della mia regione, piuttosto scarni come veste a dire il vero per "presumibile" mancanza di supporti regionali. Ho avuto modo di trattenermi a bere l'"opera omnia" di una delle prime cantine laziali ad usare il biologico,  certificata dal lontano 1994, quella di  Marco Carpineti di Cori, di cui ho riassaggiato, (ne sono da tempo un estimatore), voluttuosamente  tutti i vini serviti da sua figlia, già competente e preparata, trovandoli veramente un inno alla territorialità. Questo grazie alle grandi espressioni di vitigni tipici quali il bellone bianco e la malvasia puntinata del Lazio (che arrivano a livelli fantastici nel Capolemole bianco, non per niente 5 grappoli AIS 2013), l'arciprete in versione dolce (ottimo il Ludum), e il nero buono di Cori, che raggiunge il massimo nel Dithyrambus e nel Capolemole rosso, in uvaggio con montepulciano e cesanese. Sorprendentemente all'altezza anche il metodo classico brut da bellone, con una persistenza e freschezza in bocca davvero "remarquables", e ottimo anche il moro bianco da uve greco bianco, nelle versioni dei due cloni greco moro e giallo. I Capolemole sono DOC Cori, mentre gli altri citati sono degli IGT Lazio. Davvero interessante questa azienda da 41 ettari di vigneto e 12 di uliveto.
Galleria
Una vista dall'alto della tenuta Colfiorito, a Castel Madama,
in Provincia di Roma
A pochi metri dallo stand di Carpineti mi sembrava di vedere un'immagine familiare…ed infatti lo era. Si trattava proprio della villa di Colle Cocciano, località nota, per chi è cresciuto come me a Castel Madama, a 7 km da Tivoli e 37 km da Roma,  come appannaggio dei vecchi "signori" del paese e  da sempre, forse per pregiudizio collettivo, avvolta in quell'aria di irrangiungibilità, che invece, come vedremo, è stata scalfita dal cordiale  dialogo con gli odierni proprietari.
L'imperatore Nerva
Stiamo proprio parlando di quel Colle Cocciano, residenza borghese costruita sui resti della villa romana della gens Cocceia, che abitava i miei luoghi natii  circa duemila anni orsono e che espresse dai suoi ranghi anche l'Imperatore Nerva dal 96 al 98 dopo Cristo. Quella villa che ciascuno puo' vedere salendo l'ultima ascesa prima di arrivare al primo colle su cui si estende la parte nuova di  Castel Madama; quella villa dove tutti nel mio paese sono stati  almeno una volta per un matrimonio o una festa, ma che non tutti, sfido, sanno essere un' azienda agricola, la Tenuta Colfiorito, nonché agriturismo che produce non solo olio, come da tutti intuito in paese, ma anche del buon vino.
Sorpreso da questo fatto anch' io, subito mi sono diretto verso  la persona distinta che era al banco d'assaggio, chiedendogli di versare un rosso anche se erano le 9.30 di mattina del giorno d'apertura del Vinitaly (forse mi ispirava di più la bottiglia). Mio cugino Antonio Rocchi, che accompagno spesso negli stand in queste occasioni, alla ricerca di novità da proporre al mercato belga, mi presenta come persona di Castel Madama a chi mi versa il vino, che scopro trattarsi del "famoso" (almeno in paese) Notaio Giuseppe Ramondelli, professionista  romano di origini abruzzesi della Valle del Sangro, proprietario del podere. 

Un'immagine dal web del notaio Ramondelli


Mi parla, assieme a sua moglie (che nel frattempo mi fa assaggiare pane e olio extravergine a predominante cultivar "montanese" o montonese come si dice in paese ed altri battuti di olive prodotti in collaborazione con un'altra importante azienda locale, Ficacci) di come la villa nei secoli sia stata ora un convento, ora una casa colonica, ora  nell'800  addirittura un essiccatoio per le piantagioni di tabacco, una delle diverse colture cui il podere era sottoposto, seguendo una certa rotazione. Dei 35 ettari del podere 22 sono oggi coltivati ad uliveto, che dà circa 60 ettolitri di olio annui,  6 a vigneto e 6 ettari sono di giardino. Lo stesso notaio mi comincia a parlare della storia della Tenuta, di come un suo zio, Vincenzo Colapietro, notaio anche lui, nel 1958 acquistò i 35 ettari del podere di Villa Cocceia dalla famiglia Fraschetti e di come Lui stesso la ricevette in eredità assieme ad altri eredi, prima di riacquistarla per intero il 1 gennaio 2001. Il notaio continua raccontandomi di "averci messo la sua esistenza", investendo circa 2,5 milioni di euro in dodici anni nell'impresa di costruire quest'azienda agricola, certificata anch'essa biologica e con un piccolo frantoio interno anch'esso certificato.  La "parola d'ordine è la qualità", lo scopo è combinare l'antico della villa con la modernità della produzione ed in effetti le cantine incarnano questi due aspetti: sono le stesse di un secolo fa, ma riequipaggiate con prodotti tecnici d'avanguardia. Discutendo un po' su come si fosse trovato con i cittadini di Castel Madama, il notaio spende qualche amara considerazione su come purtroppo non abbia saputo cosi' coinvolgere la popolazione nella conduzione dell'azienda e l'amministrazione locale nella opportunità di intraprendere iniziative congiunte, specie riguardanti la possibilità di avere una DOP per l'olio o per il vino, una Terre Tiburtine che darebbe maggiore tutela e blasone ad una serie di prodotti e produttori (sembra che il procedimento iniziato nel 2005 con proposta pubblicata in G.U. 178 per il solo olio, si sia arenato in fase abbastanza avanzata, anche per mancanza di appoggio politico). 
Su questo aspetto mi trova in sintonia perché da tempo insisto sul fatto che ogni amministrazione della nostra zona dovrebbe mettere più impegno affinché il nostro territorio possa ottenere un riconoscimento e una caratterizzazione a livello eno-gastronomico.  Proseguendo,  gli ricordo che per chi viene "da fuori" non è semplice accattivarsi le simpatie dei "castellani", che purtroppo più di qualche volta si chiudono a riccio con chi anche potenzialmente possa mettere a rischio la "primazia della castellanità". Gli ripeto che in molte realtà di provincia è cosi e forse nel Lazio questo fenomeno si sente ancora di più, perché si cerca in ogni modo di non farsi "inghiottire" totalmente dalla tentacolare metropoli capitolina e dalle sue espressioni, anche le più  positive e borghesi.
Da 7 anni ha preso forma l'idea della produzione di vino, con un  impianto di ulteriori 3,5 ettari in una parte del podere esposta verso sud. Oltre alle precedenti coltivazioni di Malvasia puntinata del Lazio, Greco(hetto) e di Cesanese, sono stati aggiunti Incrocio Manzoni (riesling-pinot bianco) Pecorino, Montepulciano e Sangiovese. L'enologo che si è occupato del nuovo impianto e dei vini prodotti, e che lo stesso notaio mi ha presentato, è il dottor Daniele Di Mambro, di scuola Frescobaldi, dell'équipe di enologi della Tenuta dell'Ammiraglia di Magliano di Toscana in Maremma, di proprietà dei marchesi fiorentini. E' l'esordio al Vinitaly e quest'anno si troverà spazio anche al Cibus di Maggio a Parma. Le bottiglie prodotte da questa azienda, che impiega 6 persone di cui tre a tempo parziale e tre a tempo pieno,  sono 30.000 per il momento con possibilità di raddoppiare il numero una volta giunto a pieno regime il giovane vigneto del 2006. Il primo anno di produzione è stato il 2011. I vini sono tre: un bianco chiamato Sorgente, un uvaggio di greco e malvasia puntinata del Lazio, che è molto fresco e mantiene una certa aromaticità data dalla malvasia, ed un buon rosso,  il Villa Cocceia, abbastanza robusto, composto di un uvaggio fra sangiovese e cesanese. Buona struttura, sentori di bosco su tutti, con una speziatura percettibile di pepe nero. A mio avviso si esprimerà meglio il prossimo anno, e anche la vite, fra qualche anno, potrà produrre uve di maggiore qualità.
Last but not least un chiaretto, il Rosa dei Venti, da uve sangiovese, molto fresco e  con un certo carattere, anche se devo ammettere che raramente i chiaretti o rosati fanno breccia nel mio palato.
Questi vini sono disponibili nel nuovo ristorante a Castel Madama gestito dal collega sommelier Fernando Pucella, "Casa Fernando", aperto su prenotazione. I prezzi: 5 euro per gli operatori, 9 Euro al pubblico, ci assicura il notaio.
Vino rosso Villa CocceiaFrancamente sono sentimentalmente coinvolto e soddisfatto dall'impatto di avere visto in un'etichetta di un vino al Vinitaly il nome di Castel Madama e colpito anche del fatto che nella Tenuta Colfiorito ci sia una florida attività economica, comprendente non solo le feste ed i matrimoni, ma anche  le altre attività appena descritte, oltre a quella ricettiva, della quale neppure conoscevo l'esistenza. Mi auguro, per dirla come Ramondelli che "l'azienda progredisca" e che il vino di Castel Madama arrivi gradualmente ad ottimi livelli. Mi sembra che le premesse ci siano tutte. Un augurio va  alla famiglia anche per l'imminente matrimonio del futuro notaio Ramondelli Jr, che a luglio convolerà a nozze, con festa, forse, nella stessa Tenuta.

domenica 24 marzo 2013

I vini per tutti - Il Picpoul de Pinet, questo sconosciuto!

I vigneti che danno sullo Stagno di Thau
Con questo post vorrei cominciare a parlarvi di vini dal buon rapporto qualità prezzo, che possono essere reperiti molto agevolmente nel mercato belga, e che purtroppo in Italia, sebben siano esportati per il 40 percento della produzione, non ho mai avuto il piacere di incontrare....segnale che il mercato unico, a volte, è ancora preda di uno strisciante protezionismo.
Parliamo della toute nouvelle AOC Picpoul de Pinet, dichiarata denominazione d'origine a sé stante appena un mese fa , il 14 febbraio, dopo un ventennio di soggiorno nella AOC Couteaux de Languedoc: siamo quindi  nel sud della Francia, fra Montpellier e Beziers, vicino lo Stagno di Thau, un vero proprio mare interno di 7500 ettari, con clima tipicamente mediterraneo e venti marini, mistral e tramontana, che tanto hanno influito sulla conservazione del vigneto. I comuni della nuova AOC sono sempre i sei di prima, da Pinet, a Pomerols, Florensac, Mèze, Marseillan e Castelnau de Guers, più o meno 20000 anime in tutto e 6 milioni di bottiglie prodotte. Per la storia di questo vino  di mare il primo riconoscimento risale al 1773, quando l'intendente alle finanze Turgot, futuro ministro di Louis XVI, fece marchiare a fuoco le grandi botti di Picpoul, significandone il pregio assoluto. Dal 1994, a testimoniare l'influenza "marina", viene creata Neptunus,  la bottiglia tipica del Picpoul, che, come l'anfora del verdicchio, caratterizza in maniera inconfondibile questo vino: fondo a colonna corinzia, onda di mare in rilievo e croce del Languedoc intagliata nel vetro rigorosamente verde. L'82 % del vigneto  appartiene a cantine cooperative , mentre sono solo 4 le principali aziende gestite da singoli proprietari.

Dei vini delle cooperative ho assaggiato  il Picpoul Ormarine Carte Noire, già medaglia d'oro al concorso generale agricolo di Parigi del 2012, che si puo' comprare a costi molto contenuti, raggiungendo al massimo i cinque euro a bottiglia nella grande distribuzione (da Cora sta a 4 euro e 40 centesimi). Monovitigno di Picpoul, come del resto previsto dal disciplinare, la veste è di un giallo quasi dorato, il naso è cangiante: dapprima sentori citrici di pompelmo rosa, poi pera, pesca, mandorla e accenni di nocciola, con richiami di erba aromatica, di salvia in particolare ed una mineralità tipica, assimilabile a quella dei vermentini o pigati liguri, per passare dalla via Domizia lungo la quale i Romani impiantarono numerosi tipi di cultivar, fra l'Italia e la Spagna, alla sua logica prosecuzione, la Via Aurelia lungo la costa mediterranea. In bocca è assai fresco con una notevole spalla acida, ma la sua rotondità e morbidezza è degna quasi di uno chardonnay di razza, assolutamente particolare per questo vino che non fa malolattica.
La persistenza in bocca è abbastanza lunga, con un retrogusto ammandorlato che riflette i sentori prima citati.
Un buon vino di mare che può abbinarsi a frutti di mare o a piatti regionali di pesce, quali i filetti di acciuga crudi o le crocchette di baccalà, piuttosto che con i formaggi in aperitivo o dessert.
Quale valida alternativa, al Delhaize a Euro 4,99, il Ressac Picpoul di Pinet di Florensac, forse un po' più corto, ma di grande acidità e mineralità come il precedente.
Se li vedete in supermercato, vale la pena provarli: sicuramente sono indicativi dell'assoluto pregio del prodotto medio d'Oltralpe, ancora benchmark per la maggior parte dei vignaioli nostrani.